Tempo Economico 2004
Affanni e disagi di un mercato della pubblicità che non tiene il passo
In questa estate 2004, come avviene almeno da dieci anni a questa parte, si è riaperta la grande querelle a riguardo di Auditel, in merito alla validità e affidabilità dei suoi dati e metodologia.
Si imputa ad Auditel di non rappresentare più efficacemente l’universo di ascoltatori televisivi, si chiede agli investitori pubblicitari di sostenere la causa del cambiamento, mentre Auditel presenta una nuova segmentazione della popolazione, più basata su criteri stilistici, che dovrebbe essere varata per la nuova stagione autunnale, e calmare così le acque.
La questione è più profonda di quello che sembra, ed è lo specchio di un malessere e di un disagio che attraversa il mercato degli ascolti televisivi e dei relativi investimenti pubblicitari.
In un articolo di metà giugno, la rivista Fortune ha pubblicato un reportage sulla crisi del sistema pubblicitario in USA, quindi globale visto che il mercato è concentrato in quattro o cinque agglomerati di proprietà americana. Le ragioni della crisi fanno riferimento alla pressione sui compensi d’agenzia, con le grandi aziende che vanno via via equiparando e retribuendo il lavoro della pubblicità come quello della consulenza; un’altra ragione è lo sviluppo, ritardato in USA, dei centri media, gli specialisti che pianificano ed acquistano la pubblicità, che hanno aperto un fronte conflittuale con i ranghi creativi di Madison Avenue, avrebbero impoverito il senso nobile del fare pubblicità, ma soprattutto i conti delle agenzie rimaste orfane del media buying . Ma la maggiore causa di malessere è che nessuno riesce a capacitarsi, e quindi a trarne una conoscenza e competenza, del calo degli ascolti dei grandi network Tv, e della progressiva frammentazione di media che vengono fruiti dalle diverse fasce di popolazione. Una recente ricerca americana ha rilevato come i giovani, mentre ascoltano la televisione (appunto!), navigano in Internet, leggono giornali, o giocano con videogames, riducendo il televisore ad un surrogato della radio, degna del miglior sottofondo. Il fortunato lancio di TiVo in America, un sistema che permette di videoregistrare programmi Tv saltando la pubblicità offre un’altra bella sfida per chi si affanna a dare un valore in contatti ai propri spot Tv!
Tutti sono consapevoli di quanto stia accadendo, nonostante ciò il sistema digerisce di anno in anno rincari costanti delle tariffe pubblicitarie televisive, le aziende non hanno coraggio di diversificare e orientare i propri investimenti sfruttando questa frammentazione di uso dei media da parte dei loro consumatori, anche perché i loro consulenti pubblicitari non hanno la più pallida idea o gli strumenti per determinare l’efficacia di questi media, e quindi l’efficienza degli investimenti dei loro clienti.
Alla luce di tutto ciò, nonostante nessuno possa mettere in dubbio l’importanza che ancora ricopre il sistema Tv nel mercato pubblicitario italiano, l’affannarsi di Auditel e il disorientamento degli operatori ha un che di anacronistico, ma legittimo per la difesa degli interessi miliardari (in euro) di chi opera nel, per e con il mercato.
La questione è quanto la Tv sia ancora importante pubblicitariamente nel tessuto sociale italiano. Il nostro è indubbiamente un paese in progressivo invecchiamento e la gran parte della programmazione Tv resta un caposaldo per comunicare a queste fasce di popolazione. Ma i nuovi segmenti giovani di consumatori cosa fanno, oltre a guardare il Grande Fratello, e chissà ancora per quanto? E le fasce attive di popolazione, cioè coloro che lavorano nelle città e presentano i migliori profili di consumo e reddito, cosa guardano oltre al telegiornale di mezza sera e Porta a Porta?
A chi sono diretti gli altri migliaia di spot del day-time ?
Sarebbe interessante dare risposte non accademiche o metodologiche a queste domande, ma che facciano riferimento ai bisogni delle aziende. La massima responsabilità di queste non risposte, ahimé, ricade proprio sulle spalle dei consulenti pubblicitari in crisi – non delle aziende, come molto spesso imputato da loro stessi – che ne hanno ben donde di mettere in dubbio in questo momento di vacche magre i loro conti, investire nella conoscenza e negli strumenti di servizio, convincere i clienti e ricostruire un business system su nuove basi. Lo dovranno fare, in USA, ma anche in Italia.
Nonostante l’ostinazione degli operatori della pubblicità Internet, che ad oggi rappresentano un mirabolante 1% degli investimenti pubblicitari italiani, i banner su Internet servono in minima parte a costruire notorietà, ma molto di più a portare potenziali clienti allo sportello di una banca online, o ad informarsi sulle offerte di voli di una linea aerea.
Comunicazione e retail, per quello che riguarda Internet, sono interconnesse, e questo richiede nuove logiche di misurazione, molto meno basate sull’intangibilità della marca e molto più calate sul contributo al business. Sarebbe finalmente l’occasione per rimuovere l’eterna frustrazione dei pubblicitari a riguardo dell’incapacità di determinare il ROI del loro lavoro.
E se ancora si sostiene che Internet è poca cosa, l’industria dei telefoni cellulari sta sviluppando le prime sperimentazioni per la misurazione di quello che gli utenti fanno con i loro telefonini quando sono offline, cioè scattare foto, giocare, rivedere mini-video, eccetera.
Chissà che un giorno con un sistema meter sul cellulare e Auditel per la Tv, non si rilevi che lo stesso giovane sta scattando alcune foto con il cellulare al suo televisore, magari per conservarne la memoria futura per i suoi figli.
Andrea Giovenali